In un tempo in cui la fede non è più la “normalità”, in cui si può essere credenti e si può anche non esserlo, i cristiani debbono poi anzitutto prendere confidenza con questa libertà. Abituati, per troppo tempo, a dare per scontata l’adesione di fede, essi debbono accettare che oggi si può attraversare questo mondo, pur non essendo necessariamente seguaci di Gesù Cristo. Senza che ciò tolga, di per sé, nulla alla loro fede o alla intensità e alla serietà di una vita che si è messa alla sequela del Signore. Senza che tale mutamento dia vita a quei piagnistei, purtroppo comuni tra molti credenti, nei quali si è capaci di vedere fin nei minimi particolari tutto quello che si sarebbe perso – rispetto a un passato in cui tutti erano “normalmente” cristiani –, ma si è paradossalmente incapaci di riconoscere tutte le potenzialità che l’epoca attuale offre.
Una di queste è data proprio dalla possibilità di evidenziare che la vita cristiana nasce nella libertà e vive di libertà. Nella stagione in cui era “normale” essere credenti, ci poteva essere il pericolo di una vita cristiana più formale e non pienamente e interiormente convinta. Fermo restando che anche in quel tempo sono sorti santi eccezionali, si deve ammettere che, laddove non si poteva non essere cristiani, era più forte il rischio di una adesione a Cristo e alla vita che ne deriva, formalmente ineccepibile ma non personalmente e totalmente scelta. Sono abbastanza istruttivi, al riguardo, i ricordi di chi narra di un tempo in cui tutti andavano a Messa la domenica, ma in cui molti rimanevano al fondo della chiesa, per discorrere dei loro affari e commerci. O quelli di chi racconta i sotterfugi che si mettevano in atto per sgattaiolare da qualche regola di vita – ad esempio nella sfera della morale sessuale – che non si intendeva rispettare. Con il rischio di coltivare l’idea di un Dio che fa paura e che, se interviene, lo fa in fondo per giudicare i nostri comportamenti o per punire.
Oggi, questo pericolo non pare più così diffuso. C’è, semmai, quello inverso, di pensare ad una libertà senza legami; e di coltivare l’idea di un Dio sempre buono, misericordioso e amorevole, al punto da risultargli indifferente quel che i cristiani pensano, dicono o fanno. Ma è, comunque, una bella stagione, la nostra, per mostrare che la vita vissuta, nello Spirito, secondo Cristo è qualcosa che si offre alla nostra libertà; che Dio vuole questa libertà e che, perciò, non può fare paura. Fa molto riflettere, al riguardo, il dileggio con cui, sotto la croce, i capi dei sacerdoti e gli scribi si rivolgono a Gesù, dicendo «scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo» (Mc 15,32); e il silenzio di Dio, che in quel momento non interviene. E’ la manifestazione di un Dio che non vuole irrompere come una forza travolgente sull’uomo; è la rivelazione di un Dio che
ha a cuore che l’uomo sia davvero libero: di credere e, dunque, di vivere una vita cristiana. Questo è quanto questo nostro tempo dà ai cristiani di evidenziare.
Ma ciò significa che una esistenza cristiana all’altezza di tale libertà dovrà essere capace di ascoltare e di dialogare con le domande, le inquietudini e le ragioni di chi non crede. Per farlo, i cristiani debbono prendersi, perciò, sempre più cura della loro fede, dei suoi fondamenti e delle sue ragioni profonde, da cui originano le esigenze di una vita cristiana. Non si può, infatti, sostenere a lungo una vita cristiana, in cui ci si trova a doversi confrontare quotidianamente con persone non credenti, senza fare lo sforzo costante di nutrire la propria fede e di ricercare ciò che la rende plausibile.
Così come non si può essere dei credenti sempre più specializzati nelle scienze che si studiano, nelle professioni o nei lavori che si svolgono e rimanere, poi, dei bambini nella fede. Spesso, in questo nostro tempo, la vita cristiana pare minacciata proprio dal fatto che, ad una crescita culturale e scientifica dei credenti in Cristo non corrisponde una uguale crescita nella pratica della fede e nella conoscenza dei suoi fondamenti. […] La vita cristiana ha bisogno, oggi, di una nuova sinfonia tra le “competenze laiche” che si assumono e le “competenze della fede”.
Strettamente congiunto con quello della libertà, c’è un altro tratto che la vita cristiana sembra chiamata ad evidenziare, in questo tempo. E’ la sua capacità di essere umanizzante. Infatti, in un’epoca in cui si può credere o non credere, senza che venga necessariamente meno una tensione etica, l’esistenza dei credenti in Cristo potrà risultare tanto più sensata quanto più apparirà davvero umana. Essa potrà mostrarsi realmente praticabile a chi la vive e capace di parlare a chi non crede, nella misura in cui saprà essere vita sapiente, capace di abitare le diverse tensioni dell’esistenza con saggezza. Una vita in grado di esaltare gli aspetti più costruttivi della nostra umanità, come la generosità, l’ascolto e la comprensione degli altri, la ricerca della pace, la fiducia, il perdono; ed in grado di arginare, all’inverso, quei tratti distruttivi del nostro essere uomini, come l’invidia, la rabbia, l’odio, la vanagloria, la vendetta. Una vita capace di offrire, in definitiva, felicità e beatitudine autentiche: quelle di cui parla il vangelo; quelle che Gesù stesso ha incarnato.
Perché una vita così può essere praticata anche oggi e può risultare plausibile anche a questo nostro mondo: dove in molti, senza rinunciare ad essere moderni, continuano ad essere cercatori di vita vera, all’altezza dei nostri desideri, che non arretrano neppure di fronte alla morte. E’ una grande opportunità perché i cristiani portino, allora, quel frutto dello Spirito, di cui parla Paolo: « Il frutto dello Spirito (… ) – dice – è amore, gioia, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).
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