L’epoca attuale rappresenta un invito pressante perché i cristiani diventino sempre più consapevoli di un aspetto centrale della loro vita: la responsabilità.
Aderire alla Pasqua del Signore ed essere immersi in Cristo non significa – come si è evidenziato – essere assorbiti da Lui. La massima vicinanza e presenza di Dio portano, anzi, alla più vera e profonda autonomia umana. Cristo abita, nello Spirito, il cristiano, perché questi possa esprimere la sua intelligenza, la sua creatività, la sua ricerca continua, la sua possibilità di trasformare le cose, la sua attenzione alle esigenze dei fratelli e la sua capacità di rispondere alle loro necessità. Rendendoli suoi, Cristo fa partecipi i cristiani di quella amorevole cura divina per il mondo che Egli ha rivelato.
Ora, questo è un aspetto della vita cristiana che può renderla particolarmente credibile e appetibile in questo nostro tempo, del disincanto del mondo e dell’autonomia delle diverse sfere della società. Proprio perché lo rimandano costantemente a Dio e lo guardano dal suo punto di vista, i cristiani si prendono cura responsabilmente del mondo. Lo fanno, onorando fino in fondo il lavoro e la professione che svolgono, cercando di viverla con passione, onestà e competenza. Lo fanno, apprezzando tutte le reali capacità di interesse alla terra e alle persone che gli uomini sanno mettere in campo, ovunque si realizzino e qualunque sia l’a-spetto in questione: la medicina, la ricerca scientifica, l’economia, l’educazione, la scuola, la politica… Lo fanno, sapendo che le fragilità degli uomini rappresentano sempre, per loro, un appello: perché mettano in atto tutta la generosità, l’intelligenza e l’amore di cui sono capaci.
In questo modo, i cristiani possono testimoniare, con la loro vita, che il Dio a cui si affidano non è in concorrenza con il mondo e con le capacità dell’uomo; che Egli, anzi, si prende cura di noi.
Ma i cristiani non potranno vivere questa responsabilità senza coniugarla proprio con l’abbandono al Dio che si è manifestato e fatto incontrare in Gesù. Dopo aver compiuto tutto quanto è in loro potere di realizzare, essi debbono raccogliersi in Dio e dire con il Salmo: «nelle tue mani è la mia vita» (Sal 15). In tal modo, l’esistenza cristiana può testimoniare che Dio rimane sempre trascendente “le cose di questo mondo”. Non lo si può tirare in ballo, come fosse una parte dell’universo che conosciamo, come se fosse uno di noi. Ma, al contempo, Egli rimane l’invisibile fondamento e il senso intimo della vita che viviamo.
Forse, mai come nella preghiera, quando è purificata e autenticamente evangelica, i cristiani esprimo questo con la loro vita. Non si può, infatti, pregare pensando che l’invocazione a Dio ci liberi dalle nostre responsabilità e ci esima dal far ricorso alle capacità di affrontare i bisogni e i disagi degli uomini di cui disponiamo; o che Dio sia come un “bancomat” in cui basta digitare il codice esatto, perché “la grazia” sia fatta. Un tale modo di intendere Dio potrebbe addirittura farcelo concepire come concorrente delle nostre umane possibilità; e non veramente trascendente questo mondo, le leggi della natura, le nostre azioni.
Eppure è in Lui che, nell’orazione, deponiamo, da cristiani, le nostre inquietudini, le nostre preoccupazioni, le nostre ansie, i nostri bisogni e i nostri desideri. Per dire che Egli è il centro invisibile della nostra stessa vita; per custodire e rinsaldare il legame che ci unisce a Lui e dal quale proviene il nostro essere attivi e responsabili; e per dire la fiducia che, in un tempo dilatato sull’orizzonte dell’eternità e in modi che sfuggono al nostro governo, Dio realizzerà in modo pieno la nostra umanità. Perché Egli ha mostrato, nella resurrezione del suo Figlio, di non sapere solo rispondere al nostro desiderio di sopravvivenza; ma di saperci offrire addirittura quanto è, per noi, impensabile: la vita oltre la morte.
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