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Il mandorlo fiorito

SPUNTI PER RIFLETTERE

NEL MONDO, MA NON DEL MONDO

La vita cristiana si offre, poi, come maniera peculiare di vivere le relazioni, di stringere rapporti interpersonali e, in definitiva, di interpretare l’umano.
Il tempo attuale sembra attraversato da uno strano paradosso. Da un lato si invoca il riferimento a valori intangibili o a principi irrinunciabili, specie quando capitano fatti gravi, di privata o di pubblica “follia”. Dall’altro lato, però, si ritiene, più o meno sottilmente, che ciascuno sia assolutamente libero e possa fare, sempre e comunque, quel che ritiene bene. Da una parte, abbiamo una scuola che dà ancora il voto di condotta, implicitamente ammettendo che esista un comportamento corretto e un determinato modo di crescere, da uomini; e dall’altra parte, si hanno presunti “saggi”, i quali dicono a gran voce che non ci possono essere modelli dell’umano condivisibili.
E’ un paradosso – come ognuno può comprendere – difficilmente sostenibile: o ci si può sentire svincolati da qualsiasi riferimento nel dire che cosa è autenticamente umano, fino a poter ammettere, ad esempio, che uccidere un altro uomo è sensato; oppure ci si de-ve sentire impegnati in una ricerca autentica di quanto è davvero degno dell’uomo.
Ebbene, i cristiani hanno la piccola pretesa di vivere la vita e, dunque, le relazioni tra le persone, secondo un preciso modo di concepire l’u-mano. Inseriti in Cristo e seguaci suoi, essi ritengono che l’umano vero, autenticamente realizzato, all’altezza di ciò che siamo e dei nostri più reali desideri, sia quello che è più simile al Figlio di Dio che si è fatto carne. Il concilio Vaticano II, non a caso, ricorda che Gesù è l’uomo vero: l’uomo, cioè, che ha potuto portare i frutti più belli di cui è capa-ce l’umanità; l’uomo più contento di sé e, perciò, più rappacificato.
Per questo, i cristiani riconoscono che ogni uomo, che sia sano o ma-lato, bello o brutto, intelligente o insipiente, meritevole o non meritevole… porta impressa in sé l’immagine di Cristo. E’ questo, in ultima analisi, a far ritenere ad essi che ogni persona è dotata di una dignità inalienabile; ed è questo a renderli attivi, usando tutti i metodi disponi-bili che non neghino questa stessa dignità, nel rispettare ogni persona e nel far crescere, attorno a sé, la medesima capacità di rispetto.
Per i cristiani, poi, la vita stessa degli uomini così come la loro dignità, è un dono divino. Per questo, essi la custodiscono come tale, in se stessi anzitutto; e in tutti coloro che, a diverso titolo, cadono sotto la loro cura. Una custodia che non può riguardare soltanto l’inizio e la
fine della vita. Si tratta piuttosto di una responsabilità che si allarga alla vita in tutte le sue dimensioni: quando è umiliata dalla povertà, a causa della ricchezza sfrenata e insensata di qualcuno; quando non è offerta la possibilità di un lavoro, che permetta di guadagnare il proprio sala-rio, di mantenere una famiglia e di esprimere le proprie capacità; quando non è concessa l’opportunità di una istruzione, qualunque sia il li-vello sociale cui si appartiene; quando la vita è troppo fragile per potersi difendere, come nel caso dei bambini e degli anziani. In tutti questi casi e in molti altri analoghi, i cristiani sanno che imitare l’umano di Cristo significa vedere la vita come un dono e rispettarla, difendendo anzitutto gli inermi e i più deboli.
Volendo assumere sempre più la forma di Cristo, che ha manifestato la forza di Dio accettando di essere rifiutato, umiliato e sconfitto, i cristiani dovrebbero, poi, vivere sapendo che si può anche essere perdenti. E’ abbastanza comune, oggi, ritenere che la vita sia tanto più riuscita, quanto più è vincente. Anche nell’educazione, si crede spesso di far emergere i giovani e di farli esprimere, nelle loro qualità, mettendoli in concorrenza gli uni con gli altri. Non è così inusuale che venga veicolata l’idea che la vita sia degna di essere vissuta solo se si è primi, qualunque sia il campo cui si applica questa visuale: dalla scuola al lavoro, da-gli affetti all’economia. Talvolta, un tale modo di interpretare la vita si interseca, in modo perverso, con l’idea che si è “qualcuno” solo se si appare e si è conosciuti: non importa che cosa si abbia da offrire realmente, quale sia la grandezza dei propri pensieri, la competenza che si è acquisita o la capacità di amare gli altri di cui si è portatori.
I cristiani, che si impegnano perché nessun uomo sia umiliato da un altro uomo, sanno invece che, per parte loro, possono anche venire sconfitti. La loro sapienza li induce a considerare che, anzi, non c’è momento in cui sono più simili al Signore di quello in cui possono essere incompresi, scavalcati, battuti. Da qui deriva la consapevolezza che la violenza non può mai essere la risposta più autentica; neppure davanti alla violenza. I cristiani sanno anche, nella fede, che la parte più vera e più fruttuosa delle nostre esistenze può rimanere nascosta molto a lungo; a volte, per tutta la durata di un’esistenza. Ci sono, in-fatti, gesti di generosità, sguardi di comprensione e di benevolenza, momenti di preghiera, impegni tenaci… che non cadranno mai sotto i riflettori di alcun mezzo di comunicazione; eppure, sono reali e sono più umanizzanti di tante “vetrine” mediatiche. Per i credenti in Cristo vale, in definitiva, ciò che diceva san Paolo, qualunque sia la professione che svolgono o il modo concreto di vivere l’esistenza cristiana: «la vostra vita è nascosta con Cristo, in Dio» (Col 3,3).

Roberto Repole, La Vita Cristiana, San Paolo

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