La resurrezione: un’espressione quasi originaria dell’evento si trova nelle confessioni di fede che Paolo inserisce qua e là nelle sue lettere, specialmente nella prima che scrive ai cristiani di Corinto:
Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni si .sono addormentati. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli (1Cor 15,3-7).
Contemporaneamente, nelle stesse lettere paoline e nella Prima lettera di Pietro, vi sono citazioni di inni non meno antichi che esaltano il senso della resurrezione come trasfigurazione in piccolo, del mondo; egli è morto, ma che significa se non che è dunque disceso nelle regioni inferiori, negli stati infernali dell’esistenza universale: “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose” (Ef 4,10). Dunque al tempo stesso “agnello immolato” e “colui che tiene le sette stelle nella sua destra” (Ap 2,1), come dice l’ Apocalisse, colui nel quale tutte le cose esistono e che, incarnatosi, messo a morte, risuscitato, riempie tutto con la sua luce, la “luce della vita” (Gv 8,12) secondo l’evangelista Giovanni.
Sulla resurrezione di Gesù le Scritture hanno moltiplicato, senza cercare affatto di coordinarle, le constatazioni di un’assenza-presenza che sfida la nostra intelligenza di per sé commisurata alla morte. La Vita risplende moltiplicando i suoi sprazzi di luce. Non voglio mettermi a discutere della tomba vuota – il mondo così a lungo segnato dalla morte è ormai una tomba vuota! -, né delle numerose attestazioni della resurrezione. Si può forse conoscere una sinfonia analizzando l’inchiostro e la carta con cui è stata messa per iscritto? Non vale piuttosto la pena di porgere l’orecchio al dispiegarsi della musica? I sordi sono forse i migliori critici musicali? E quanti si affrettano a negare il mistero sono forse i più idonei a svelarne le tracce? Preferisco piuttosto quello straordinario poeta anonimo vissuto agli inizi del II secolo, il quale mette sulla bocca del Risorto queste parole, usando un linguaggio che sarà ripreso nella liturgia:
Ho spezzato i catenacci delle porte,
… più nulla mi parve imprigionato perché ero io la chiave di ogni cosa.
Sono andato incontro a tutti i miei reclusi per liberarli
perché nessuno sia più né carcerato né carceriere (Odi di Salomone 17,8-11)
Cristo, il Dio incarnato – “il Verbo si fece carne” – ha condiviso sino in fondo, e ancor oggi condivide la nostra condizione. Noi frantumiamo l’umanità in chiuse individualità, che si odiano o si confondono. Divisione che si prolunga e si dilata negli odi collettivi. Diciamo di essere persone, ma chiusi nel nostro isolamento rimaniamo nulla più che degli aborti! Cristo, invece, è una persona perfetta perché è una persona divina, “uno della santa Trinità”. Certo, egli è un individuo ben concreto, di cui l’arte può tratteggiare il volto. Ma, essendo “amore senza limiti”, non è separato da nulla, da nessuno di noi, dall’inizio alla fine della storia: “capolavoro d’uomo”, porta in sé l’intera umanità. Egli muore con noi, noi risuscitiamo con lui.
Resurrezione non significa rianimazione di un cadavere, un morto che torna alla vita nelle condizioni in cui versava prima di morire. La resurrezione di Cristo ribalta radicalmente tali condizioni. Certo, il Risorto è reale, si lascia toccare da Tommaso, condivide il cibo con i discepoli, eppure è diverso, “sotto altro aspetto” dice la finale di Marco, tanto che Maria di Magdala lo scambia per il giardiniere, e i pellegrini di Emmaus per un viaggiatore male informato. Egli sfugge allo spazio e al tempo che separano, li trasforma in mezzi dell’incontro, in vie di comunione. In lui il divino e l’umano sono definitivamente uniti; l’umano trova così il suo compimento, mentre l’umanità trasfigurata, deificata, è ormai Il, a penetrare, a far entrare nel “travaglio” le profondità della storia, come è di una donna a fine gravidanza – ed è la Donna contemporaneamente perseguitata e “vestita di sole” di cui parla il dodicesimo capitolo dell’Apocalisse. Secondo l’immagine offertaci da Cirillo di Alessandria: “Come il ferro, a contatto con il fuoco, assume il colore di quest’ultimo, così la carne [cioè il creato], ricevuto in se stessa il Verbo divino, è liberata dalla corruzione. Per questo [Cristo] si è rivestito della nostra carne, per liberarla dalla morte” (Cirillo di Alessandria, Omelie sull’ Evangelo secondo Luca 5,19).
Ma allora, per quale motivo la resurrezione rimane segreta? Per rispetto della nostra libertà. Il Risorto non s’impone. Egli non si mostra ai potenti di questo mondo, ma si rivela unicamente a coloro che l’accolgono con fede e con amore. Non è la resurrezione a suscitare la fede, ma è la fede che consente alla resurrezione di manifestarsi. Gesù ci chiama con dolcezza, come fece con Maria Maddalena: solo in quel momento “essa si voltò” – si voltò il suo cuore – , e lo riconobbe. Ed è nell’ora della frazione del pane, in una locanda come tante altre, che i pellegrini di Emmaus lo riconoscono; e che egli scompare, presente ormai nell’eucaristia, nello Spirito, nei “misteri” della chiesa, cioè nei suoi sacramenti.
Infatti nella chiesa la sua umanità – che è la nostra – , a un tempo crocifissa e glorificata, diventa per noi sorgente della vita. Certo, la morte continua a regnare, e tutto ci ricorda la sua presenza: la separazione, la tristezza, la scomparsa di coloro che amiamo, le tragedie spesso così atroci della storia, l’odio che rivolgiamo contro noi stessi e contro gli altri. Ma tutte queste situazioni, se attraversate con fiducia nel Risorto, se accettiamo di riceverci da lui, possono diventare cammini di resurrezione. Cristo è risorto, la morte spirituale è vinta, la morte è ormai soltanto il velo lacerato dell’amore. Allora, in fondo a noi stessi, l’angoscia si muta in fiducia e non abbiamo più bisogno né di schiavi né di nemici.
Credevamo non vi fosse via d’uscita, ma lui era lì, lui, il nostro amico, il nostro luogo di riparo – “venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, e vi darò riposo” – e la sua presenza è uno spiraglio di luce. “Ieri ero sepolto insieme a te, o Cristo”, recita il mattutino di Pasqua della liturgia bizantina, “oggi con te mi risveglio, o Risorto” . Si, alla luce della Pasqua noi ci risvegliamo come bambini, come convalescenti. Ed è il primo mattino del mondo: un mandorlo fiorisce in mezzo alle rovine, Dio ci ridona la vita, ci perdona. “Nessuno ti ha condannata?”, chiede Gesù all’adultera. “Neanch’io ti condanno; va’, e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,10-11). Facendo ritorno al Padre con la sua ascesa al cielo, Cristo porta a compimento la nostra liberazione, ci permette di ricevere lo Spirito, la “novità dello Spirito”, e dischiude alla nostra responsabilità il cantiere della storia: fino a quando tornerà, e perché ritorni. In questo solco di libertà creatrice, noi siamo chiamati a spezzare il nulla che ci accerchia, a trascinare tutti gli uomini e l’intera creazione in un dinamismo di resurrezione.
Si, Cristo è risorto, e tutti, e tutte le cose, ormai, sono viventi. Per sempre.
Tratto da: O. Clement, Le feste cristiane, Edizioni Qiqajon